I pasti del servizio sanitario ospedaliero nazionale fanno vergognare la nostra cucina 

Viola Di Grado è una scrittrice e traduttrice letteraria italiana, il suo ultimo romanzo è Blue Hunger.
Recentemente è stata ricoverata in un ospedale inglese, e questo è il suo articolo pubblicato sul quotidiano The Guardian in cui riflette sulle differenze tra la cucina del sistema sanitario nazionale italiano e inglese.

“Sono nata in una famiglia con poco amore per il cibo, sono cresciuta con insalate e pasta scotta e due genitori che consideravano il mangiare niente più che un compromesso necessario per sopravvivere. Solo da adulta ho scoperto che il cibo può essere davvero fonte di soddisfazione, e che in Italia in particolare viene associato all’ospitalità, alla convivialità e ai buoni sentimenti in generale. Come diceva una delle nostre scrittrici più note, Elsa Morante: “La manifestazione d’affetto più vera, l’unica in effetti, è ‘Hai mangiato?’” Esatto: non il decrepito e astratto “ti amo”, ma un domanda preoccupata se il tuo caro abbia mangiato o meno.

C’è solo un posto in cui questa narrazione di attaccamento al cibo fallisce, ed è l’ospedale. Come ogni italiano sa, non appena si viene ricoverati, l’opulenza dei sapori viene sostituita da un cibo miserabile, degno di una galera medievale. I pasti serviti ai pazienti non solo mancano di varietà (si possono contare sulle dita di una mano le opzioni disponibili durante tutto l’anno) ma sono gommosi, duri e rigorosamente privi di qualsiasi gusto o condimento. Questa pratica è così diffusa, senza eccezioni (anche, per quanto ne so, nelle costose cliniche private), che nessuno si è mai chiesto da dove provenga. In effetti, nemmeno io l’avevo fatto, fino all’estate scorsa. Sono stata ricoverata in un ospedale di Londra per un’infezione al torace. Con mia sorpresa, ogni giorno un membro dello staff molto gentile veniva a trovarmi per mostrarmi un menu e lasciarmi scegliere tra diverse opzioni: tutti piatti complessi e gustosi che attingono a diverse tradizioni culinarie. Mentre mi rimpinzavo di deliziosi tikka masala e piatti asiatici agrodolci, ho iniziato a chiedermi perché, nel mio paese d’origine, l’esperienza culinaria ospedaliera per me, e per tutti gli altri, fosse stata così diversa.

Quando penso ai periodi passati dai miei cari in ospedale (sia pubblici che privati), la mia mente è piena di gelatine di frutta acquose, petti di pollo pallidi e duri come stivali invernali e montagne di verdure flosce e non identificabili.

La mia risposta immediata ai menu molto vari e, secondo la mia esperienza, positivi, del servizio sanitario nazionale del Regno Unito, è stata quella di chiedere all’infermiera se mi era effettivamente permesso mangiare cioccolato e crema pasticcera, sale e pepe, carne di maiale e salmone. Per quanto suonasse ridicolo, le tipiche portate ospedaliere italiane mi avevano fatto credere che i malati dovessero attenersi a rigide regole alimentari autopunitive. Ma non sono la sola: la mia amica Anna, anche lei italiana che vive all’estero, mi ha scritto dicendo: “Goditi il cibo inglese dell’ospedale!”

Sono giunta alla conclusione che, il contrasto tra la “cucina ospedaliera” italiana e inglese potrebbe avere le sue origini in diverse eredità della tradizione religiosa: nell’Italia profondamente cattolica, da sempre divisa tra la rigorosa moralità cristiana e un bisogno mediterraneo di assaporare la vita, la persona malata è tenuta a purificarsi immediatamente da ogni desiderio di piaceri mondani quando entra in ospedale. Carne gommosa e carote bollite non condite arrivano a chi è costretto a letto come un’opportunità mascherata di espiazione. Il paziente mastica stoicamente i cibi orribili come se servissero a espiare i peccati. È il tradizionale atto del fioretto che ci insegnano da bambini: prometti al santo che hai scelto che, se esaudirà il tuo desiderio, sacrificherai qualcosa che ti piace estremamente.

Il presupposto implicito in questa narrazione è che il piacere è peccaminoso, e quindi rinunciarvi aumenterà le probabilità di guarigione. In realtà, ciò non è molto diverso dal concetto di “buona morte” nell’Inghilterra vittoriana. Allora, quando ci si avvicinava alla fine della vita, si rinunciava all’attaccamento al mondano per prepararsi alla beatitudine dell’aldilà.

Questo mi ricorda Chihiro, l’eroina di Spirited Away di Hayao Miyazaki, un film radicato nel folklore giapponese. Entrando in un mondo magico che la farà crescere come persona, alla ragazzina viziata (protagonista del film) viene dato del cibo insapore che dovrebbe impedirle di scomparire, mentre i suoi avidi genitori, esclusi dal viaggio spirituale della bambina, divorano prelibatezze e quindi si trasformano in maiali.

Per concludere dubito che ci sia speranza, per gli italiani, di sfuggire a questa antichissima (e apparentemente interculturale) tradizione di espiazione del cibo ospedaliero, ma so che la prossima volta che un mio caro verrà ricoverato in ospedale, gli porterò del buon cibo, perché ora grazie alla mia esperienza negli ospedali inglesi, so che dal punto di vista medico è più che accettato, e molto probabilmente risulterà un tonico per il paziente.”

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