Allo studio una terapia orale per la leucemia fulminante

La leucemia acuta promielocitica è un sottotipo della leucemia mieloide acuta. È la forma più aggressiva di tumore del sangue, tanto che è conosciuta anche come leucemia fulminante. Se non viene identificata in tempi rapidi in centri di riferimento esperti e attrezzati per affrontarne la gestione, il rischio di mortalità precoce è molto elevato, ma oggi la leucemia promielocitica acuta può essere curata nella quasi totalità dei casi. La ricerca farmacologica ha fatto passi da gigante e il merito è soprattutto degli ematologi italiani, protagonisti di uno studio apparso nel 2013 sulla rivista New England Journal of Medicine che ha ridimensionato il ruolo dei chemioterapici per evidenziare l’efficacia di un approccio basato sulla combinazione dell’acido retinoico (derivato della vitamina A) con il triossido di arsenico. 
La gestione di questa patologia è stata al centro dell’8° Simposio Internazionale la Fondazione GIMEMA sulla leucemia acuta promielocitica, che ha esplorato nuovi approcci terapeutici per minimizzare le complicanze della malattia e migliorare la qualità di vita.
«La combinazione di acido retinoico e triossido di arsenico senza chemioterapia si è dimostrata la migliore opzione terapeutica per le fasce di rischio cosiddetto “standard”, con alti tassi di sopravvivenza a lungo termine e una ridotta probabilità di ricaduta rispetto ad altri regimi terapeutici» conferma Maria Teresa Voso, Professore Ordinario di Ematologia al Policlinico Universitario di Roma Tor Vergata e tra i coordinatori scientifici dell’evento.

Durante il simposio Harry J Iland, Professore di Medicina all’Università di Sydney, Australia, e medico specialista al Royal Prince Alfred Hospital, ha presentato i risultati di uno studio rilevante sull’uso dell’arsenico per via orale e non più per via endovenosa.
«La terapia standard richiede infusioni prolungate di due ore. Tale procedura, sebbene efficace, comporta un impatto sull’utilizzo delle risorse ospedaliere e sulla comodità del paziente. La terapia orale potrebbe così rappresentare un’alternativa vantaggiosa dal punto di vista economico e forse anche in termini di sicurezza, ma attualmente la sua disponibilità per uso clinico è limitata». La ricerca ha confermato la bioequivalenza tra la somministrazione orale e quella endovenosa, il che potrebbe aprire nuove prospettive nella gestione della malattia.

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