Infarto, la rete salvavita funziona

“Molto positiva, pur con margini di miglioramento, ma in continuo progresso”. Questo, in estrema sintesi, il quadro dell’assistenza alle persone colpite da infarto cardiaco in Italia, fotografato dalla Società Italiana di Cardiologia Invasiva (GISE) nel Rapporto del progetto “Rete IMA web 2”.

Al fine di valutare il livello e la diffusione delle reti per l’assistenza a questi pazienti, la Società Italiana di Cardiologia Invasiva, con il supporto di tutta la comunità cardiologica italiana, la Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza (SIMEU) e il 118, ha realizzato il progetto Rete IMA web, rilevazione nazionale sullo stato di attuazione delle reti territoriali per il trattamento dell’infarto miocardico acuto (IMA), giunto alla seconda edizione: la prima condotta nel biennio 2007-2008, la seconda nel 2012-2013.

È stato ampiamente dimostrato come il modo migliore per salvare la vita di una persona colpita da infarto del miocardio, oltre a ridurre il rischio di un altro infarto, di emorragie intracraniche e ischemie ricorrenti, sia intervenire entro 90 minuti dal primo contatto medico con una riperfusione meccanica mediante angioplastica coronarica primaria, in termini più semplici riaprire l’arteria con un catetere con palloncino e con l’impianto di uno stent. Ridurre il tempo di intervento significa ridurre la mortalità, in questo caso il tempo è vita. Perché ciò avvenga è necessario un lavoro di squadra tra chi riceve la segnalazione dell’evento cardiaco, il 118, la rete ospedaliera dei pronto soccorso, delle cardiologie e dei laboratori di emodinamica, che devono interagire tempestivamente e rapidamente tra loro.

Il primo dato che emerge è rassicurante. Circa il 95% della popolazione italiana vive in un luogo che si trova entro 60 minuti da un centro attrezzato per curare adeguatamente l’infarto attraverso un’angioplastica. Questo dato era del 92,4% nel 2008.

Inoltre, oggi a livello nazionale l’angioplastica primaria è il trattamento di scelta del 64,7% dei casi, mentre nel 2008 ciò avveniva in poco più di un terzo dei casi.

Un altro dato significativo e fondamentale riguarda la possibilità di fare una diagnosi precoce di infarto miocardico “sul territorio”, attraverso l’esecuzione di un elettrocardiogramma (ECG) “sul posto”, ossia al momento del primo soccorso del paziente. L’ECG consente di fare diagnosi tempestiva di infarto acuto e conseguentemente di attivare il trasporto diretto in sala di emodinamica per l’intervento di angioplastica. Nel 2008 ciò era possibile in 7 casi su 10, oggi in 8 su 10, ma quello che è più importante è la teletrasmissione dell’ECG, attualmente utilizzata nei due terzi dei casi, che consente di inviare, una volta fatta diagnosi, il paziente nell’ospedale idoneo più vicino, riducendo i tempi di rivascolarizzazione.

Infine, il dato che meglio testimonia l’evoluzione e i grandi passi in avanti compiuti dalla rete per l’assistenza al paziente infartuato in Italia. È di fatto raddoppiato, passando dal 42,6% del 2008 al 79,6% del 2013, il volume degli accessi diretti, il cosiddetto fast track dei pazienti con diagnosi di infarto ai laboratori di emodinamica, senza transitare cioè dal pronto soccorso, con un accorciamento dei tempi di riperfusione. Ciò è stato reso possibile da diversi fattori: un maggior ricorso da parte del cittadino al 118, un miglior utilizzo dell’ECG per la diagnosi precoce, un adeguamento dei modelli organizzativi delle strutture.

Nel video:

  • Emanuela Piccaluga
    Società Italiana Cardiologia Invasiva
  • Antonio Marzocchi
    Società Italiana Cardiologia Invasiva
  • Sergio Berti
    Presidente Società Italiana Cardiologia Invasiva
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